Oggi, 25 novembre, Giornata contro la violenza sulle donne. Il timore è che resti solo questo. Una giornata, appunto. Una delle tante in cui si chiacchiera, si fanno tavole rotonde, si dibatte e poi finisce tutto nel dimenticatoio.Parole in libertà senza azioni concrete. Non è di questo che c’è bisogno ma di sicurezza. Di certezza delle pene. Occorre che chi commette un omicidio, chi perseguita l’ex moglie o l’ex compagna, vada dritto in galera e non ne esca. Punto. Non è così, invece. Quasi sempre l’omicida riconquista la libertà e la sua vita in pochi mesi mentre per la sua vittima ci sono state solo frasi di circostanza ed un funerale, magari affollato e ripreso dalla televisione ma niente di più. Tante, troppe donne sono morte o sono state segnate per sempre. Picchiate, violentate fisicamente e psicologicamente e costrette su una sedia a rotelle. Sono state fatte leggi ad hoc che, però, non trovano riscontro nella loro applicazione nel reale. E l’elenco delle vittime si allunga a ritmo forsennato. Sono tanti i casi di cronaca che, da giornalista, ho dovuto raccontare e sempre finiti nel peggiore dei modi. Ne ricordo uno su tutti ed oggi voglio riproporlo proprio perché non si cerchi di dimenticare. Il caso di Veronica Abbate, di Mondragone, provincia di Caserta, venti anni nel 2008 quando è stata uccisa dall’ex fidanzato. Si erano lasciati da qualche mese ma lui non si rassegnava e le telefonava continuamente minacciando di suicidarsi se lei non lo avesse ascoltato. Lei cercava di farlo ragionare ma era una partita persa. Finché una sera d’estate e lui le ha chiesto un appuntamento per parlare. L’ultima trappola. Un solo colpo sparato diritto alla nuca con la pistola di ordinanza da finanziere. Oggi la mamma di Veronica, Tina, ha realizzato, combattendo contro il dolore e la disperazione ogni giorno, l’associazione Veri ed una casa – rifugio per donne che hanno subito e subiscono violenza. Lo ha fatto su un immobile sottratto alla camorra. “Perché non ci sia un’altra Veronica”… Sarà realmente così?